SETTIMANA BIBLICA

Dal 14 al 16 marzo si terrà la Settimana Biblica Diocesana, un appuntamento importante per approfondire la propria fede e la conoscenza delle Scritture. Si terrà presso la Parrocchia di San Lorenzo Martire, a Francavilla Fontana, dalle ore 19.00 alle ore 21.00.
Sarà guidata da Padre Franco Annicchiarico, gesuita, che i nostri parrocchiani conoscono già, per aver egli tenuto le sue riflessioni nella prima giornata delle Quarantore.
Egli approfondirà il Vangelo di Luca, che è il Vangelo di questo Anno liturgico.
Padre Franco sarà nuovamente in mezzo a noi il lunedì e il martedì santo, alle ore 19.00, per tenerci gli Esercizi spirituali parrocchiali. Vi invitiamo a non mancare...
Di seguito troverete lo stralcio di una riflessione del Vescovo Luciano Monari sul rapporto con la Sacra Scrittura, alla luce delle riflessioni di don Giuseppe Dossetti.


Nella sua bella introduzione al progetto di Biblia, don Dossetti, citando la lettera pastorale di Roncalli per la Quaresima del 1956, ricorda otto punti salienti, quasi principi fondamentali che presiedono a un accostamento di fede alla Bibbia. A mo’ di indice:
1. Tutta la Bibbia è parola di Dio;
2. Tutta la Bibbia è un unico libro;
3. Tutta la Bibbia ha un senso spirituale, e questo senso, di tutte le Scritture e di tutti i libri, è il Cristo;
4. La Bibbia va letta nella tradizione, e in continuità omogenea con essa va interpretata;
5. Le condizioni per comprendere la Bibbia… sono pregiudizialmente e prevalentemente abiti virtuosi;
6. La Bibbia è il libro di tutto il popolo di Dio;
7. Il vescovo ha in tutto questo la primissima e ineludibile responsabilità, anzi è questo l’oggetto proprio del suo sacerdozio;
8. La Bibbia (il libro, l’alfa) è inscindibile dal calice dell’eucaristia (l’omega).

Il primo, dunque, di questi punti salienti è che: “Tutta la Bibbia è parola di Dio.” Dall’affermazione di questo principio don Giuseppe ricava la conseguenza che “gli scriptores dei singoli libri possono dirsi loro autori solo in un senso improprio e secondario” e, a sostegno dell’affermazione, cita alcuni padri e teologi da Origene a Flacio Illirico. Il problema che m’interessa nasce dal fatto che la Dei Verbum, al n. 11 recita: “Per la composizione dei libri sacri, Dio scelse degli uomini, di cui si servì nel possesso delle loro facoltà e capacità, affinché, agendo egli in essi e per mezzo loro, scrivessero come veri autori tutte e soltanto quelle cose che egli voleva.” Gli agiografi sono veri autori o autori sono in un senso improprio e secondario? Chi dei due ha ragione: Dossetti o il dettato conciliare?
Siccome per natura sono portato a mediare i conflitti, vorrei dare ragione a entrambi, naturalmente da punti di vista diversi. Ha ragione don Dossetti quando dice che i singoli autori, proprio perché scrivono solo una parte del grande libro della Bibbia e non sono pienamente consapevoli del disegno globale nel quale il loro testo si inserisce, sono autori ‘biblici’ solo in senso affievolito; il significato ultimo del loro stesso testo potrà essere capito solo sullo sfondo di tutto il disegno biblico, che essi non conoscono ancora. Ma ha ragione anche la Dei Verbum quando dice che gli autori biblici sono assunti da Dio come veri autori responsabili, alla cui opera non manca nulla di ciò che è necessario per definirli autenticamente autori dei loro scritti; non sono solamente degli amanuensi che copiano quanto è stato scritto da un altro o che scrivono sotto dettatura quanto è loro suggerito da un altro. Il mistero dell’ispirazione biblica ha una certa analogia con il mistero dell’incarnazione: Gesù, persona divina unica in una duplice natura, umana e divina, dove le due nature sono diverse ma non divise, non diminuite.
Questo fonda il valore non eliminabile della ‘lettera’ nel senso più pieno: non solo la precisione della singola parola, ma la struttura sintattica dei testi, la loro unità articolata, il loro significato nel complesso dell’opera e così via. E in questo sono convinto che le scienze umane – le scienze del linguaggio – siano veramente utili per comprendere correttamente e con ricchezza di significato, la parola di Dio scritta. Ma rimane vero che siamo di fronte a Dio che ci parla e, per l’ascolto di questa parola, le scienze umane rimangono insufficienti. È la fede della Chiesa che coglie l’unità della rivelazione di Dio e che sa trovare il riflesso di questa unità grande anche nei piccoli frammenti di testo che ascolta e legge e interpreta momento per momento. Qui, però, si apre un problema ulteriore.
Sto leggendo i “Sermones super cantica Canticorum” di san Bernardo; non li avevo mai letti e lo dico a mia vergogna perché sono un testo insieme straordinario e problematico. Straordinario perché presenta una visione della vita cristiana come rapporto sponsale col Verbo e lo fa nel modo più affascinante che si possa immaginare: l’amore di Dio è espresso in infinite modalità diverse e il rapporto dell’uomo con Dio è colto davvero nel suo centro. San Bernardo conosceva la Bibbia a memoria; non solo fa numerose citazioni bibliche, ma qualunque cosa dica, la dice con parole della Bibbia; gli vengono fuori così, senza bisogno di andare a cercarle su una concordanza. In calce a ogni pagina, la mia edizione pone cinque dieci, addirittura quindici di riferimenti biblici: una straordinaria sinfonia. La vita spirituale, la vita monastica ha molto da assumere da Bernardo. E però c’è anche qualcosa di problematico: il Cantico dei Cantici dice davvero quello che Bernardo espone? Con 86 sermoni (nella mia edizione bilingue sono più di 1.100 pagine) Bernardo arriva a commentare due capitoli e si ferma a Ct 3,1. Il problema non è l’interpretazione allegorica di cui egli fa uso, ma il fatto che questa interpretazione è legata alla singola parola, non al disegno complessivo del libro. La critica che Dossetti fa, e giustamente, all’interpretazione storico-critica (quella cioè di frammentare i testi) può essere rivolta (anche se in modo notevolmente diverso) all’interpretazione di Bernardo. L’interpretazione storico-critica frammenta il testo perché lo suddivide in fonti, generi letterari, glosse esplicative e così via; l’interpretazione patristica (di san Bernardo) frammenta il testo perché getta su ogni parola la luce di tutta la Bibbia e in questo modo rischia dì fare scomparire l’identità propria del versetto nei suoi legami concreti, letterari col contesto. Se ho davanti, da ammirare, un bassorilievo, non posso fargli cadere addosso tutta la luce sul davanti perché questo mi impedirebbe di cogliere il modellato in tutte le sue particolarità. Ho bisogno di luce radente che faccia vedere chiaramente le forme ma suscitando il contrasto tra luce e ombra e penombra; la delicatezza del contrasto mi permette di apprezzare il bassorilievo meglio che non la pienezza della luce.
Ho ricordato questo perché mi sembra che ci aiuti a vedere il problema nella sua complessità. Non ci sono dubbi – almeno per quanto mi riguarda – a proposito dei punti salienti che Dossetti ricorda. Ma da qui a dire che la strada di un’esegesi integrale è ormai libera, ci passa ancora molto. I metodi letterari sincronici o canonici, che sono entrati prepotentemente in campo negli ultimi decenni, sono aperture molto promettenti e chissà che poco alla volta le nebbie si diradino e possiamo vedere il paesaggio biblico in tutto il suo splendore. Sempre nell’introduzione a Biblia don Giuseppe scriveva che “Un ritorno puro e semplice all’esegesi anteriore, per esempio all’esegesi dei padri o anche di Luterò, non è né pensabile né auspicabile.” (173) e un po’ più avanti: “È troppo presto per fare proposte formali di metodi nuovi che superino la crisi.” (174) Forse il Signore non ci chiede così tanto, per ora. E però ci chiede di porre l’egemonia della Bibbia come obiettivo del nostro impegno e di andare con serietà in questa direzione.

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