NEL BLU, DIPINTO DI BLU!
Pubblichiamo di seguito un'emozionante sintesi della Giornata Mondiale della Gioventù, vissuta lo scorso luglio a Cracovia, scritta da un giovane della nostra parrocchia che ha partecipato all'evento:
Il cielo polacco è più blu di quello italiano. Durante le due settimane di permanenza in Polonia non mancava mai l’occasione di alzare lo sguardo verso quel fondo scenico dinnanzi al quale andava sviluppandosi il grande palcoscenico della Giornata Mondiale della Gioventù. Più che una giornata, è una vita. Perché la GMG ti cambia l’esistenza. “GMG” significa “viaggio”; Ulisse mi ha insegnato che il viaggio si costruisce su cinque dimensioni: l’essere sognatori, l’essere stranieri, l’essere ospiti e l’essere viaggianti. Il viaggio è sogno che si realizza. E’ toccare con mano quello che gli occhi chiusi vedono nella tua mente. Viaggiare significa assaporare ogni singola sensazione che il tuo essere ha desiderato nel suo intimo.
Desideravo scappare dal posto in cui mi trovavo. Era come se tutto ciò che mi circondava mi stesse stretto. Mi mancava il fiato, volevo a tutti i costi andare via, staccare la spina per un po’ da quella che viene definita “quotidianità”. Sono un cattolico praticante e non voglio nascondermi. Sono stato educatore ACR e sono un Giovane in Cammino. Diedi al mio parroco la mia adesione e lo comunicai ai miei. Sarei partito alla volta di Cracovia in mezzo ad una folla oceanica di ragazze e ragazzi. Come tutti gli altri avrei sentito le parole del Papa dal vivo, lo avrei guardato negli occhi, avrei pregato con loro, avrei cantato a squarciagola le canzoni che uniscono noi giovani cattolici (le stesse che, peraltro, canto ogni domenica a messa qui a Roma). Sono partito con il cuore aperto ad ogni minima emozione, desideravo che si riempisse come uno scrigno e che potessi custodirle in eterno. E poco mi importava della paura di un attacco terroristico. Nel caso non fossi tornato a casa con le mie gambe, sarei stato “uno sprovveduto martire della pace”, come mi definiva mia madre.
“Che cos’è Dio?”, domanda un bambino. La madre lo stringe tra le braccia e gli chiede: “Cosa provi?”. “Ti voglio bene”, risponde il bambino. “Ecco, Dio è questo”.
(Krzysztof Kieslowski)
(Krzysztof Kieslowski)
Durante il viaggio quest’aforisma di Kieslowski – grande regista polacco ricordato soprattutto per i suoi “Dieci Comandamenti” – tentava di mettere a bada tutte le mie paure, i miei interrogativi, le mie perplessità. Quando vai via da tutto ciò che definisci “casa”, “famiglia”, “amore”, ecco che ti senti uno “straniero”. Omero, quando descrisse Ulisse naufrago sull’isola dei Feaci, lo rappresentò “nudo”; anche Adamo ed Eva, dopo aver morso il frutto del peccato, si scoprirono “nudi”. La condizione di nudità è il sentimento provato dallo straniero. Per la prima volta, mi sentì nudo. E’ una condizione frustrante, che obbliga a chiuderti, a fare di tutto in modo da non scoprire la tua intimità. Fu la famiglia che mi ospitò a regalarmi la coperta che mise al caldo il mio cuore: Marek, Kasha e il piccolo Olek.
Durante la settimana di permanenza a Paniòwki – villaggio di duemilatrecento anime a sud di Cracovia – ho sperimentato l’abbraccio di Dio descritto da Kieslowki nella sua frase. Da straniero sono diventato ospite. Da nudo, abbracciato. Mi sono sentito di nuovo a casa, ho compreso che l’Amore è la più potente arma di ricostruzione di massa. Perché, a volte, è molto più semplice distruggere che ricostruire.
Auschwitz – Birkenau è un esempio di come la ricostruzione storica sia il più grande atto d’amore nei confronti di tutti coloro che sono stati umiliati, destinati all’oblio, torturati e trucidati. Amare è anche rendere testimonianza; è avvertire le generazioni future circa le conseguenze dell’aridità del cuore umano. Il campo di sterminio di Auschwitz – Birkenau è estremamente grande. Uno spazio immenso, ed immenso oggi è il suo silenzio. Un silenzio assordante che ti stringe l’anima in una morsa asfissiante.
Dov’era Dio mentre i nazisti bruciavano – nella maggior parte dei casi vive – nei forni crematori donne in attesa di figli perché ritenute “inutili”, mentre lanciavano neonati in aria e li usavano come bersagli, mentre torturavano nelle loro “infermerie” donne, bambini e uomini di qualsiasi età? Dio non c’era. Dio non era lì perché in quell’immensità gli uomini avevano dimenticato cos’era l’amore.
Dio è Amore: esso costruisce ponti, non muri. Un ponte è tenersi mano nella mano, unendosi per vincere l’odio e la paura. Una stretta di mano è biunivoca. E’ un atto di fiducia verso l’altro. Io ho fiducia nel prossimo solo se ho imparato a perdonare i suoi sbagli, i suoi errori; ho imparato a riconoscere le sue debolezze. In una sola parola: “Misericordia”. La Misericordia però non è un atto semplice, veloce e per certi versi “comodo”. Essa è frutto di un’ opera di fiducia su noi stessi e sull’altro, è amore incondizionato che si sveglia dalla divano-felicità e corre verso i cuori aridi dei cultori dell’odio, dei costruttori di muri. Io non voglio vivere con la paura del diverso, dell’altro, del prossimo; non voglio che i miei figli nascano, crescano e vivano in un mondo chiuso da muri costruiti sul pregiudizio e sul terrore. Voglio che loro possano essere liberi di viaggiare, studiare, aprirsi a nuove culture, a nuovi orizzonti. Desidero che creino ponti umani con il resto dell’umanità, a prescindere dal credo religioso, politico, dal sesso, dall’etnia e da altra stupida categorizzazione dell’agire umano. Io pretendo che i miei figli non leggano sul giornale gli orrori di Auschwitz come i miei nonni, non ascoltino in radio le tragedie della guerra in Vietnam come i miei genitori, non guardino le derive del terrorismo islamico in TV.
Da Auschwitz, da Cracovia, da Paniowki, dalla Polonia e dai giovani miei coetanei del mondo ho imparato ad avere speranza, a confidare che il futuro sarà un bel posto. Io questo bel posto voglio vederlo; perciò resto un eterno viaggiante, la quarta e ultima dimensione del viaggiatore. Perchè, come scrisse Louis–Ferdinand Celine, nel suo “Viaggio al termine della notte”:
Durante la settimana di permanenza a Paniòwki – villaggio di duemilatrecento anime a sud di Cracovia – ho sperimentato l’abbraccio di Dio descritto da Kieslowki nella sua frase. Da straniero sono diventato ospite. Da nudo, abbracciato. Mi sono sentito di nuovo a casa, ho compreso che l’Amore è la più potente arma di ricostruzione di massa. Perché, a volte, è molto più semplice distruggere che ricostruire.
Auschwitz – Birkenau è un esempio di come la ricostruzione storica sia il più grande atto d’amore nei confronti di tutti coloro che sono stati umiliati, destinati all’oblio, torturati e trucidati. Amare è anche rendere testimonianza; è avvertire le generazioni future circa le conseguenze dell’aridità del cuore umano. Il campo di sterminio di Auschwitz – Birkenau è estremamente grande. Uno spazio immenso, ed immenso oggi è il suo silenzio. Un silenzio assordante che ti stringe l’anima in una morsa asfissiante.
Dov’era Dio mentre i nazisti bruciavano – nella maggior parte dei casi vive – nei forni crematori donne in attesa di figli perché ritenute “inutili”, mentre lanciavano neonati in aria e li usavano come bersagli, mentre torturavano nelle loro “infermerie” donne, bambini e uomini di qualsiasi età? Dio non c’era. Dio non era lì perché in quell’immensità gli uomini avevano dimenticato cos’era l’amore.
Dio è Amore: esso costruisce ponti, non muri. Un ponte è tenersi mano nella mano, unendosi per vincere l’odio e la paura. Una stretta di mano è biunivoca. E’ un atto di fiducia verso l’altro. Io ho fiducia nel prossimo solo se ho imparato a perdonare i suoi sbagli, i suoi errori; ho imparato a riconoscere le sue debolezze. In una sola parola: “Misericordia”. La Misericordia però non è un atto semplice, veloce e per certi versi “comodo”. Essa è frutto di un’ opera di fiducia su noi stessi e sull’altro, è amore incondizionato che si sveglia dalla divano-felicità e corre verso i cuori aridi dei cultori dell’odio, dei costruttori di muri. Io non voglio vivere con la paura del diverso, dell’altro, del prossimo; non voglio che i miei figli nascano, crescano e vivano in un mondo chiuso da muri costruiti sul pregiudizio e sul terrore. Voglio che loro possano essere liberi di viaggiare, studiare, aprirsi a nuove culture, a nuovi orizzonti. Desidero che creino ponti umani con il resto dell’umanità, a prescindere dal credo religioso, politico, dal sesso, dall’etnia e da altra stupida categorizzazione dell’agire umano. Io pretendo che i miei figli non leggano sul giornale gli orrori di Auschwitz come i miei nonni, non ascoltino in radio le tragedie della guerra in Vietnam come i miei genitori, non guardino le derive del terrorismo islamico in TV.
Da Auschwitz, da Cracovia, da Paniowki, dalla Polonia e dai giovani miei coetanei del mondo ho imparato ad avere speranza, a confidare che il futuro sarà un bel posto. Io questo bel posto voglio vederlo; perciò resto un eterno viaggiante, la quarta e ultima dimensione del viaggiatore. Perchè, come scrisse Louis–Ferdinand Celine, nel suo “Viaggio al termine della notte”:
“Viaggiare, è proprio utile, fa lavorare l’immaginazione. Tutto il resto è delusione e fatica. Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario. Ecco la sua forza. Va dalla vita alla morte. Uomini, bestie, città e cose, è tutto inventato. È un romanzo, nient’altro che una storia fittizia. Lo dice Littré, lui non sbaglia mai. E poi in ogni caso tutti possono fare altrettanto. Basta chiudere gli occhi. È dall’altra parte della vita”.
Giovanni Luigi Gioia
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